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Dicembre
11
2018

Riflessioni sparse sulle grandi opere come paradigma di un modello di sviluppo insostenibile

Scritto da Super User

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Riflessioni sparse sulle grandi opere come paradigma di un modello di sviluppo insostenibile

L’appello alla mobilitazione contro le grandi opere riapre un capitolo che sembrava sopito, quello dei grandi conflitti contro la mercificazione del territorio. Negli anni ci si è mobilitati contro mega discariche, inceneritori, ponti impossibili e trafori inutili e siamo stati sempre etichettati come retrogradi e contrari allo sviluppo del paese.

Negli anni abbiamo cercato di porre in essere le contraddizioni insite in un modello di sviluppo che viaggia a due velocità, da un lato accelera il consumo di risorse irriproducibile senza che vi sia un reale tornaconto per le comunità locali, dall’altro capitalizza gli utili socializzando i debiti. Nella pratica, per come sono concepite le grandi opere, sono operazioni utili al mantenimento di talune prerogative affini a specifici interessi economici.

Un altro dato preliminare è quello che le grandi opere vengono quasi sempre immaginate su tracciati nei quali lo sviluppo è già in atto e sul quale si investe con rischi molto bassi, assai raramente si sente parlare di grandi opere per modernizzare le aree deboli del paese. Difficilmente sentiremo parlare di raddoppio ed elettrificazione della linea ferroviaria Taranto-Reggio Calabria o di un radicale ridisegno della SS 106 con un sistema che integri ferrovia e trasporto gommato tra la costa e l’entroterra.

Si preferisce parlare di tunnel sotto le città, vedi il caso del Tunnel di Firenze, un cantiere aperto senza che sia mai stato scavato un metro cubo di terreno o di linee di metropolitana con fermate che spuntano nel mezzo delle aree archeologiche, (linea C di Roma). Ma si glissa sul potenziamento del trasporto ferrato regionale, che pure sarebbe utile a migliaia di pendolari, preferendo invece ridimensionarne i costi, partendo da manutenzioni fatte male o assolutamente inesistenti che finiscono col provocare disastri, non è necessario fare l’elenco dei deragliamenti dai primi anni 2000 ad oggi, fanno ormai parte della memoria collettiva.

In un paese a due velocità il territorio resta indietro è perduto e diventa un ricettacolo per tutte le opere impattanti che altrove sarebbe troppo imprudente costruire, come le discariche, le centrali a carbone e i rigassificatori. Non è semplicemente questione di Nord e Sud, si tratta di essere territorialmente appetibili per alcuni scopi o no. Il dato emergente è quello di uno scambio impari all’interno delle dinamiche di un modello di sviluppo socialmente ed ecologicamente insostenibile.

La crescente disparità sociale si misura anche fra le periferie, date in pasto alla speculazione immobiliare, e il centro urbano, dal quale sono estromessi i meno abbienti. Esodi silenziosi di persone costrette a vivere sempre più distanti dai luoghi di lavoro fuggendo da affitti sempre più cari, affidandosi a servizi sempre più diradati man mano che ci si allontana dal centro. Nonostante ciò difficilmente quando si parla di grandi opere e riforme, se ne parla in termini di grandi operazioni di ricognizione e riforma dell’edilizia economica e popolare, spesso utilizzata come moneta di scambio per favoritismi, clientele e garanzia di voti per questo o quell’altro partito.

Non si parla nemmeno di opere necessarie e servizi minimi per garantire la mobilità, si preferisce il potenziamento delle linee urbane per favorire il turismo, poiché porta sviluppo e ricchezza, ma non viene spiegato come questa ricchezza venga poi reinvestita nel territorio, anche se la risposta è sotto i nostri occhi. Quello che serve ai territori sono opere concrete, come la messa in sicurezza contro il rischio sismico, contro il dissesto idrogeologico e di bonifica di luoghi utilizzati per interrare rifiuti pericolosi e scorie di ogni genere.

Alle nostre economie servono migliaia di opere piccole e medie che rimettano in piedi un sistema di infrastrutture efficiente che consenta la movimentazione di mezzi, persone e merci su tutto il territorio, non solo su corridoi predefiniti che di fatto escludono intere aree, abbandonandole ad una stagnazione letale.

Per queste motivazioni e per cercare di arginare questi processi il CSOA Angelina Cartella negli anni è sempre stato in prima linea, tanto nel contrastare le opere inutili quanto nel proporre alternative e sottolineare la necessità di infrastrutture funzionali e a basso impatto territoriale (non solo ambientale). Dal NO PONTE al rigassificatore di Gioia Tauro, passando per inceneritori e discariche, abbiamo sempre cercato di affrontare le problematiche con le armi dell’informazione e del coinvolgimento delle popolazioni locali, per far comprendere a più persone possibili che esistono alternative concrete all’attuale modello di sviluppo insostenibile.

Nel proseguire il nostro percorso di recupero del territorio e rivendicazione del diritto delle popolazioni locali di decidere del destino della terra in cui vivono, rilanciamo una riflessione critica circa il modello di sviluppo che ci sta conducendo alla frammentazione sociale e alla devastazione del territorio. Rilanciamo inoltre la partecipazione attiva di chiunque sia interessato alla costruzione di momenti di discussione collettiva, per costruire assieme percorsi di riappropriazione e valorizzazione dal basso del territorio in cui viviamo.

L’assemblea del CSOA Cartella

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